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Testimonianze varie

Dal libro di Don Romualdo Formato

che per noi confortasti l’ultimo loro dolore;

Tu sei Colui che porti in Te

chiuso

l’ultimo loro grido

e l’ultimo pensiero per noi;

Tu sei Colui che solo sa

dove alcuni di essi dormono

il loro duro sonno.

Erano i nostri figli

erano nostri sposi:

nostra forza e nostra vita

era il loro amore.

Lascia che non si spenga mai

questo nostro dolente amore,

che santificato dalla Tua grazia

ci fa sentire i nostri morti

SEMPRE VIVI

SEMPRE VICINI,

SEMPRE UNITI A NOI;

che ci conforta e ci comunica

quella certezza,

che fu loro,

di non essere invano morti per la PATRIA,

e che ci dà l’altra

di non averli invano perduti,

di non aver invano versate

tante lacrime.


UNA PRECISAZIONE DI ELIO SFILIGOI SUL “REFERENDUM” DEL GEN. GANDIN

Massimo Filippini scrive che “nessuno ha mai scritto come si sia svolta questa consultazione”. Il dissenziente pensa ovviamente all’atto formale il che è un’assurdità. Nella condizione in cui vennero a trovarsi gli uomini dell’Acqui i primi cinque giorni dopo l’armistizio, non fu necessario procedere alla “conta” dei si e dei no per alzata di mano, poiché ci fu una sollevazione generale partita dalla base. È naturale quindi che non si può parlare di referendum classico, bensì constatare che erano pochi quelli che volevano consegnare le armi ai tedeschi e ancora meno coloro che volevano con essi continuare a combattere contro gli alleati ed i greci. Questo è un dato di fatto. Nel mio libro quest’ipotetico dilemma: o coi tedeschi o contro, è ben spiegato a pag. 16-17. Quelli che per un motivo o per un altro non volevano combattere, molto raramente lo dissero apertamente, preferirono tacere e abbandonarono il campo.

            Per quanto concerne la Marina, posso affermare senza tema di essere smentito, che lasciarono i ranghi: due ufficiali, un sottufficiale e nessun marinaio.

            I reparti della Marina accentrati a Faraò ed a Miniés il giorno 10 settembre, nel tardo pomeriggio, espressero anche formalmente: no alla consegna delle armi, no ai tedeschi; anzi, per la prima volta si udì una richiesta perentoria <<sono i tedeschi che devono cedere le armi!>> (vedi pag. 61-64 del mio libro). Atteggiamenti collettivi del genere avvennero in tutti i reparti dell’Acqui, dove c’era qualcuno che voleva passare ai tedeschi lo fecero a proprio rischio e pericolo.


Novembre, 2001                              Elio Sfiligoi

                                                           ex S. Capo Fur. D. del Comando Marina 

di Cefalonia 

Elio Sfiligoi – Qui Marina Argostoli Cefalonia  – Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli (Go), 1993.


UNA CANZONE (dal sito www.anpi.it)

Il testo di una canzone che ricorda il martirio dei soldati italiani della Divisione “Acqui”. La canzone fu composta, pochi giorni dopo il massacro, dai superstiti, raccoltisi nel “Raggruppamento Banditi Acqui”. Non se ne conosce l’autore. Il tema musicale è quello della canzone “Sul ponte di Perati”. 

 

Banditi della “Acqui” 

In alto il cuore: 

Sui monti di Cefalonia 

Sta il tricolore. 

Quelli che han combattuto 

Non sono tornati, 

Sui monti di Cefalonia 

Sono restati. 

Soldati prigionieri 

Già trucidati 

Nel mare e nelle cisterne 

Furon gettati. 

Quelli che han combattuto 

E torneranno 

Le sorti dei compagni 

Vi narreranno. 

[Tratta da “Canti della Resistenza italiana”, Milano, Collana del Gallo Grande, 1960, p. 102]


CEFALONIA di Franco Mattavelli

Oltre il mare,
la Patria lontana
su quest’isola di sogno
i prigionieri
aspettan la morte che verrà
alla Casetta Rossa.
Ore tremende di attesa
resa
più atroce
da un ulivo sacro sacro
simbol di pace.
Poi una radura
poi una buca che porta
al mare
poi un ordine
tatatà … tatà … tà.
Poi silenzio infinito.
Su in alto, un cielo
azzurro pien di stelle
par che si scolora.
Un’ora …
due ore e ancora …
tatatà … tatà … tà.
Non ci son lacrime
non ci son preci
non ci son fiori
non ci son spose,
mamme non ci son.
Lacrime, preci, fiori, spose,
mamme
ora son corone d’alloro
per Eroi inermi
che i vermi
han voluto trucidare
per odio
per viltà!
Perdonare certo ,dimenticare mai.


Nando Insolvibile

In ricordo del nonno di Isabella Insolvibile
isainso@libero.it

Sapevo che mio nonno aveva combattuto in Grecia con la Acqui. Ignoravo però l’immensità della tragedia che aveva colpito questa gloriosa Divisione. Di nonno Nando, morto nel ’58, vent’anni prima che io nascessi, avevo sentito raccontare molte cose, soprattutto riguardanti la sua morte. Mio padre e mia zia erano troppo piccoli per avere ricordi precisi, e avevo paura di intristire troppo la nonna chiedendole di raccontarmi qualcosa in più.
“Nonno è morto per colpa della guerra “: quand’ero bambina è questo ciò che sentivo ripetere più spesso. Il suo cuore si era ammalato perché era stato fucilato: ne era uscito incolume ma era rimasto ore ed ore sotto i corpi dei suoi compagni massacrati. E la paura era stata troppa.
Mio nonno ha cominciato la carriera militare nel 1934, a vent’anni. Quando l’Italia è entrata in guerra, nel 1940, ha combattuto prima sul Fronte Occidentale e poi sul fronte albanese e greco. E’ stato a Corfù, a Santa Maura e poi a Cefalonia, sempre nel 33° Reggimento della Divisione Acqui.
Degli anni 1941-1944 mi restano tante fotografie. Il nonno doveva avere una grande passione per quest’arte, e il risultato è che io eredito un grande patrimonio di memoria visiva. E’ da queste foto che ho cercato di ricostruire la vita di nonno Nando e dei suoi compagni a Cefalonia, invasori involontari di quell’isola tanto lontana dalla Patria ma che presto sembrò loro una nuova casa. Le fotografie, tutte datate e titolate, mi rimandano ad un clima di vacanza, di bagni al mare, di giochi e divertimenti fra commilitoni. Questa era l’atmosfera che si viveva a Cefalonia prima dell’armistizio. La guerra era lontana e , se non fosse stato per le divise e per la nostalgia dei propri cari, i soldati della Acqui non avrebbero neanche sentito di essere in guerra. Dopo i tormenti e le fatiche della disastrosa, e inutile, campagna di Grecia ed Albania (per ricostruire l’Impero, per non essere da meno nei confronti della Germania…) i nostri militari stavano godendo il meritato riposo del conquistatore vittorioso ma buono, avendo in fondo instaurato rapporti di pacifica convivenza con la popolazione dell’isola.
La guerra tornò, improvvisa ed inaspettata, l’8 settembre 1943. Alla notizia dell’armistizio, firmato tra un’Italia ormai vinta e a pezzi, martire di vent’anni di dittatura e di megalomane propaganda imperiale, e le preponderanti forze anglo-americane, gli Italiani della Acqui, della Regia Marina, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, brindarono alla pace.
In apparenza l’armistizio voleva dire ritornare a casa, riprendere la vita normale, il proprio lavoro, riunirsi alle proprie famiglie.
Molti però intuirono allora che quell’armistizio, che poi altro non era che una resa incondizionata, firmata da un capo del governo- fantoccio e da un re in fuga , significava l’esatto contrario della pace: la guerra ricominciava nella sua forma più crudele; ora si sarebbe dovuto combattere contro l’ex-alleato, contro il camerata, contro l’amico. I tedeschi erano di nuovo il nemico storico e a loro sembrava che gli Italiani avessero tradito una seconda volta.
A Cefalonia, isola roccaforte dell’arcipelago delle Jonie e possesso fondamentale per il mantenimento della penisola balcanica, erano giunti, nell’agosto 1943, circa 2000 Tedeschi appartenenti all’esercito regolare, la Wehrmacht, a rinforzo del contingente italiano. Gli abitanti dell’isola avevano gradito molto meno l’arrivo di questo sparuto contingente nazista che quello dei 12mila Italiani. I rapporti tra Italiani e Tedeschi erano amichevoli, camerateschi, e molti furono i soldati hitleriani che all’annuncio dell’armistizio, a quel frainteso presupposto di pace, festeggiarono con i camerati italiani. In fondo anche loro avevano delle case alle quali tornare, dei cari che desideravano riabbracciare.
Ma Tedeschi ed Italiani erano diventati nemici, di colpo si era risvegliato l’antico odio risorgimentale.
Qualcuno avrebbe dovuto abbandonare l’isola, uno dei due schieramenti doveva divenire prigioniero dell’altro. Era la legge della guerra, la legge del più forte.
Secondo la logica tedesca erano gli Italiani a doversi arrendere, nonostante la loro preponderanza numerica. Gli Italiani avevano perso la guerra contro il nemico comune, gli alleati anglo-americani, ma soprattutto gli Italiani erano traditori, traditori badogliani. La Germania nazista invece continuava a combattere con coerenza, e avrebbe continuato, ancora sicura della vittoria in una guerra folle, insensata, ingiusta, come tutte le guerre.
Gli Italiani erano ovviamente di parere inverso. Il rapporto di forze con i Tedeschi era di 6 a 1, e ne andava del proprio onore, del proprio orgoglio, della propria dignità, prima di uomini e poi di soldati. D’altro canto gli Italiani non sapevano che non avrebbero ricevuto mai i rinforzi necessari a contrastare un nemico che sicuramente non sarebbe stato abbandonato dal proprio Paese. I nostri invece lo erano. L’Italia, che aveva firmato l’armistizio senza considerare, o volutamente sacrificando, le migliaia di truppe di stanza all’estero al fianco dei Tedeschi,e che ora si trovavano improvvisamente consegnate nelle braccia del nuovo nemico, non rispondeva alle richieste di chiarimenti e disposizioni che il Generale Gandin rivolgeva dal Comando Divisione di Argostoli, capoluogo dell’isola di Cefalonia. Il Generale era in trattative con il Tenente Colonnello Barge, comandante delle truppe tedesche, stanziate a Lixuri, nella penisola di Paliki, all’incirca di fronte ad Argostoli. Gandin, che conosceva bene i Tedeschi e sapeva di quali efferatezze fossero capaci, dato che aveva partecipato alla campagna di Russia, era dell’idea di cedere le armi, salvaguardando però la dignità militare dei suoi uomini e sua. Ma i suoi uomini non la pensavano allo stesso modo : arrendersi ai Tedeschi non era solo disonorevole, significava soprattutto divenire prigionieri e non poter fare rientro in Patria. Da Atene il Generale Vecchiarelli, comandante dell’11 Armata, sopraffatto dai Tedeschi e dalla paura per se stesso, ordinò di consegnare le armi, in evidente contrasto con il comunicato di Badoglio, che comandava in pratica di opporsi agli ex-alleati. Sia il comunicato di Badoglio che quello di Vecchiarelli lasciarono la Acqui ancora più sola e più incerta. Mi ha detto il qui presente signor Saverio Perrone:

“Gandin ha cercato di salvarci fino all’ultimo momento. Ma l’avevano lasciato solo. Cercò di prendere tempo, implorò aiuto, ma l’Italia non rispose. Era un’ipocrisia già il dirci di rispondere ad eventuali attacchi di forze nemiche. Ovviamente si parlava dei Tedeschi, ma mancava addirittura il coraggio di nominarli”

Intanto gli abitanti di Cefalonia promettevano agli Italiani il loro aiuto e li incitavano alla battaglia. Anche Barge riceveva numerose pressioni, da Atene, dalla Germania e da Hitler in persona. La Acqui andava immediatamente disarmata, bisognava imporre urgentemente l’ultimatum. Gli ufficiali della Acqui che avessero opposto resistenza andavano fucilati come franchi tiratori. Questa denominazione è dettata in realtà da uno dei tanti errori dell’Italia: il nostro Paese avrebbe dichiarato guerra alla Germania solo nell’ottobre 1943; di conseguenza gli Italiani che combattevano contro le truppe naziste non potevano essere considerati militari nell’esercizio del loro dovere, ma ribelli e franchi tiratori. Questa sarebbe spesso stata la giustificazione che i Tedeschi avrebbero addotto per discolparsi delle numerose azioni crudeli e disumane che perpetuarono contro i militari italiani, in Patria e all’ estero, in quell’infuocato settembre’43.
Gandin decise di non decidere da solo: convocò prima il suo Stato Maggiore, poi i 7 cappellani della Divisione, perché gli riferissero il loro parere e i sentimenti delle truppe.
Intanto né l’Italia né i nuovi alleati rispondevano agli appelli del Generale. Le truppe ormai lo odiavano considerandolo filotedesco e vi era stato anche un attentato, per fortuna fallito, nei suoi confronti. Ma Gandin continuava a prendere tempo: voleva trovare la soluzione di quell’impasse politico-miltare che rischiava di trasformarsi in un massacro di dimensioni storiche. Il Generale sapeva che, se avessero combattuto e perso, non solo per lui, ma anche per i suoi “dodicimila figli di mamma”, i Tedeschi non avrebbero avuto pietà. Non ne avevano mai avuta, e non ne avrebbero avuta neanche quei Tedeschi della Wehrmacht, l’onorato esercito regolare tedesco, mai pari alle SS, ma comunque dotati di un gran “senso dell’onore” nazista.
Gandin dunque decise di far scegliere ai suoi uomini e lo fece attraverso un atto senza precedenti nella storia militare, un referendum. Ai dodicimila della Acqui venne chiesto cosa volessero fare, se cedere le armi ai Tedeschi, continuare a combattere al loro fianco o invece combattere contro di loro. La decisione fu irrevocabile, anche se forse non plebiscitaria. E’ doveroso che io dica che vi sono alcuni reduci che mi hanno detto di non aver mai sentito parlare del referendum. Il signor Reppucci, allora appartenente al 33°, mi ha detto:

“Io non fui mai contattato, né potevano contattare 12mila persone, avranno contattato solo gli ufficiali. Poi, si sa, ogni comandante convince i suoi soldati…Ma non è vero che tutti gli Italiani volevano combattere contro i Tedeschi”.

Nonostante ciò molte sono anche le voci che testimoniano l’esistenza del referendum. Il signor Perrone mi ha detto:

“Ognuno decise per sé. Il risultato del referendum fu quasi plebiscitario. La scelta fu determinata dal senso del dovere. Il risultato fu un grande conforto morale per Gandin. Per evitare la tragedia bisognava cedere le armi. Questo però non poteva avvenire per decisione spontanea di una Divisione alla quale, seppure confusamente, era stato ordinato di resistere. Fu l’assenza dell’Italia, prima e durante la battaglia, che condannò la Acqui”


Con il referendum, atto primo e straordinario della democrazia, la Divisione Acqui decise di combattere e inconsapevolmente si votò al massacro. Ma fu una scelta consapevole, compiuta da uomini, da soldati, personale inquadrato in gerarchie e addestrato secondo ideali fascisti, nel completo silenzio di una Patria più lontana mentalmente che materialmente, nel completo disinteresse di Alleati che ormai avevano la vittoria in pugno. La Acqui inaugurò la Resistenza e la rinascita della Patria per la decisione, il coraggio, la dignità e l’orgoglio di ogni singolo uomo, nonostante la Patria si fosse arresa.
Mi ha detto il signor Saverio Perrone:

“La Resistenza è cominciata a Cefalonia. Ma non lo considero un nostro merito: era nostro dovere, nonostante Badoglio, il re e l’Italia tutta ci avessero abbandonati”

La battaglia fu feroce. I Tedeschi ricevettero il micidiale aiuto degli Stukas, e Cefalonia, tutta vallate, gole, pianure e terra bruciata dal sole non dava riparo ai nostri uomini. Molti furono gli atti di eroismo durante i combattimenti, molti i nostri caduti. I feriti italiani venivano uccisi sul campo di battaglia per ordine diretto di Hitler. Il 21 settembre il Sottotenente di vascello Di Rocco giunse a Brindisi dopo un viaggio travagliato nel canale d’Otranto, compiuto su un mezzo di fortuna, con una coperta come vela e la Stella Polare come bussola. Era stato mandato da Gandin e da Mastrangelo, comandante del distaccamento della Marina a Cefalonia, per implorare aiuto. Gli alti comandi di Brindisi lo trattarono con sufficienza: era inutile insistere o fare ritorno nell’isola, la Acqui era ormai praticamente sopraffatta. Il 22 settembre la Acqui si arrese. Già durante i giorni di battaglia tutti i prigionieri venivano messi al muro e massacrati dalle mitragliatrici tedesche.
Si trattava di fucilazioni di massa. Mio nonno probabilmente fu coinvolto in una di queste. Questi massacri colpivano indistintamente sia gli ufficiali che la truppa. Nonno Nando era sergente maggiore. Io non so in quale località dell’isola di Cefalonia sia successo, non ho trovato nessuno che mi abbia saputo raccontare qualcosa di lui, nessuno che lo conoscesse. Di certo non fu coinvolto nella fucilazione degli ufficiali avvenuta il 24 settembre, a San Teodoro, vicino ad Argostoli, nei pressi della tristemente famosa “ Casetta Rossa”. Quel giorno, in una delle più cruente e disumane rappresaglie della seconda guerra mondiale, furono uccise 136 persone su 173. I 37 sopravvissuti furono costretti a firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non commettere atti ostili contro la Germania. Non era tradire la Patria e i propri ideali, era solo l’ennesima umiliazione cui la Acqui fu sottoposta dal suo vecchio amico tedesco. Il dopoguerra dell’ epurazione li accuserà di collaborazionismo. Il signor Perrone mi ha detto:

“Grande colpa ha l’Italia, e una determinata storiografia, nel non aver capito cosa veramente successe il 24 settembre alla Casetta Rossa, dopo la strage degli ufficiali. Ai graziati fu imposto di firmare un documento in cui in pratica giuravano di collaborare con la Germania contro chiunque, anche contro l’Italia, per la vittoria finale del Terzo Reich , cosa che, automaticamente significava adesione alla Repubblica di Salò. Ma cosa potevano fare? Gli ufficiali, e poi anche noi soldati scampati alle fucilazioni, lavorarono per i Tedeschi per salvare la pelle. Tanti lo fecero: l’alternativa era la morte.”

I corpi degli ufficiali della Casetta Rossa furono fatti affondare in mare. I corpi degli uomini massacrati su tutta l’isola furono bruciati, fatti saltare in aria con le mine o lasciati insepolti, perché, per ordine diretto del Furher, i traditori badogliani non meritavano sepoltura. La Acqui, la Marina, l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza persero a Cefalonia, in battaglia, nelle fucilazioni sommarie e nella rappresaglia che seguì la resa, circa 6700 uomini. Altre 3000 persone morirono mentre venivano trasferite in continente , da dove avrebbero raggiunto i campi di concentramento, perché le 3 navi che le trasportavano incapparono sulle mine disseminate nel porto di Argostoli. I naufraghi scampati alle esplosioni furono finiti a raffiche di mitragliatrice.
Ciò che restava della Acqui, fra cui mio nonno, fu tenuto prigioniero nell’isola fino al settembre del 1944. I prigionieri lavoravano per i Tedeschi alla ricostruzione di strade, ponti e batterie contraeree. Intanto però il Capitano Apollonio riorganizzava la Resistenza. Ho trovato, fra il materiale conservato da mio nonno, un documento che recita:

“La notte del 13 o 14 ottobre 1943 il Capitano Apollonio, che in attesa dell’esito dell’inchiesta condotta contro di lui dai Tedeschi era stato inviato nella batteria di Chelmata , ci riunì nella sua stanza, e dopo averci esposto che, anche se costretti a subire il giogo tedesco, nessuno doveva dimenticare i Compagni Caduti e le infamie commesse dai Tedeschi, ci fece giurare, impugnando con la mano destra il suo mitragliatore Beretta, che lo avremmo seguito in qualsiasi circostanza onde vendicare prima possibile i Caduti e Fucilati della Acqui”

Il documento è firmato anche dal nonno. Dalle lettere che inviava a sua madre ho saputo che ebbe presto l’incarico di interprete dal Comando della Wehrmacht, dato che parlava correntemente il tedesco ed il greco. Intanto però era uno dei “Banditi della Acqui”, il raggruppamento di Italiani che, alle dirette dipendenze del Capitano Apollonio, fingendo di collaborare con i Tedeschi, compiva atti di sabotaggio, faceva propaganda anti-tedesca presso i polacchi arruolati con la forza nella Wehrmacht, e soprattutto passava informazioni importanti ai partigiani greci, tenendoli aggiornati delle eventuali retate contro di loro e contro gli Italiani nascosti presso la popolazione di Cefalonia. I Banditi della Acqui impedirono poi, nel settembre ’44, che i Tedeschi, che si apprestavano a lasciare l’isola, facessero saltare il porto di Argostoli, ultimo atto di inutile crudeltà perpetuato da un esercito in ritirata verso la sconfitta.

Sono andata a Cefalonia, in fondo, per trovare qualcosa che mi parlasse di mio nonno, che mi raccontasse cosa era successo a lui. So tanto degli altri: conosco le tragiche morti di tanti suoi compagni, conosco le loro ultime parole, le loro agonie. Ma mio nonno non è morto a Cefalonia, in quell’isola trasformata in un immenso campo di sterminio galleggiante, in quell’isola che dall’Italia ti sembra piccola e invece ci arrivi e ti trovi davanti l’immensità di 800kmq di curve, gole, montagne, spiagge. Tutto immerso, colorato,circondato,abbandonato nel mare. Il continente, quello che gli isolani chiamano “l’altra Grecia “, appare all’orizzonte ma è infinitamente lontano se non si ha modo di raggiungerlo.
Non sono riuscita a vedere Cefalonia con i soli occhi di una turista. E’ stato come se ogni luogo mi ricordasse qualcosa. Ovviamente non sono ricordi miei, ma solo il frutto di ciò che ho letto e studiato, di quello che mi è restato dentro e che stando là è venuto in superficie.
Gli abitanti di Cefalonia amano molto noi Italiani. Mi hanno accompagnata a vedere i “luoghi della memoria” dell’isola. L’affetto nei nostri confronti è spontaneo, intenso, espansivo, va al di là di ragioni storiche: in effetti, a partire dalla dominazione romana, noi Italiani non abbiamo fatto altro che invadere la loro terra. Ma, nonostante ciò, provano per noi come un senso di gratitudine. E di compassione. Hanno continuato a ripetermi che gli Italiani erano tanto buoni, troppo buoni, che davano da mangiare ai bambini, che si comportavano bene. Hanno continuato a ripetermi che quegli Italiani, morendo, invocavano la mamma. Quando ne parlano i loro occhi si riempiono di lacrime.
Cercavo mio nonno, ed in fondo l’ho trovato. L’ho trovato, insieme ai suoi compagni, nei ricordi della gente dell’isola, nei luoghi che ho voluto visitare senza dare alle mie ricerche un senso di pellegrinaggio ma un significato di viaggio nella memoria, nel nome della riconoscenza.
Oggi sono qui a rappresentare me stessa e la mia generazione, dimostrando che noi non solo non dimentichiamo ma che anzi studiamo la lezione dataci dagli eroi di Cefalonia perché consapevoli che il presente di libertà che viviamo è un regalo che ci proviene dal loro sacrificio e che esso è la base del nostro futuro.
Quest’anno, all’improvviso, l’Italia si è ricordata, dopo quasi sessant’anni di oblio (voluto e colpevole), dei suoi primi eroi della Resistenza. Siamo qui per continuare a ricordare, perché non si dimentichi più, ma anche perché finalmente abbia un senso riconosciuto ciò che mi ha detto il signor Perrone:

“ Ci promisero che ogni sacrificio sarebbe stato ricompensato. Stiamo ancora aspettando. Una battaglia non la vince chi crede di aver vinto, ma la si vince per la nobiltà della motivazione per cui essa viene combattuta”.

Allora la Acqui ha vinto.


Isabella Insolvibile
isainso@libero.it

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